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Direttrice Editoriale: Paola Banone Fotografo: Franco Covi
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Editoriale
Dreamtimedancemagazine, redazione nata in una periferia milanese in cui abbiamo la nostra sede operativa. Siamo cresciuti come una redazione giovane, diversa e indipendente, per viaggiare nel mondo della danza e di molto altro, dal balletto al contemporaneo, dal teatrodanza al mixability. Un magazine edito dall'Associazione Culturale Vi.d.A., produttore del Festival Internazionale Dreamtime: danza senza limiti, che della Mixed Abilities Dance ha fatto la sua bandiera. Il magazine si avvale della collaborazione di affermati professionisti, nuove leve, sguardi molteplici sul complesso mondo della danza. Paola Banone, direttrice del festival Dreamtime, coordinatrice del magazine, ricercatrice, da tanti anni compie un lavoro mirato sul mixability e sulla relazione tra danza e sociale.
Direttore del magazine è Claudio Arrigoni, giornalista sportivo e commentatore dello sport paralimpico per Rai e Sky; testimonial dell'intera operazione è Anna Maria Prina, ex direttrice per 32 anni Scuola di ballo del Teatro alla Scala, personalità di spicco della danza italiana, coinvolta dal settembre 2011 nel lavoro con la Cie MixAbility Dreamtime.
25/06/2016
Recensioni-Altre

Luci e ombre alla Biennale Danza 2016

Venezia 17 - 18 -19 giugno 2016

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I corpi si appropriano di spazi incredibilmente belli e affascinanti, all’interno di palazzi settecenteschi, nei campielli, nelle strade di Venezia.
La Biennale Danza 2016 (17-26 giugno), diretta dal coreografo Virgilio Sieni, ha aperto con una performance di venti minuti, in una spaziosa e luminosa sala al quinto piano del Conservatorio Benedetto Marcello, per Biennale College, la sezione dedicata a giovani danzatori non professionisti per i quali i coreografi ospiti hanno creato dei brani inediti.
My walking is my dancing è un workshop del canadese Sandy Williams, danzatore della compagnia belga Rosas, improntato sulla camminata, punto di partenza per esplorare poi movimenti più complessi. Si tratta di uno studio, così come Verso la specie di Claudia Castellucci, con i danzatori in abiti neri, incappucciati, stivaletti bassi in un clima un po' funereo che si muovono in cerchio ma che, rispetto al pezzo del canadese, ha un sapore decisamente più mediterraneo e personale. Con i danzatori della Biennale college ha lavorato anche la coreografa algerina Nacera Belaza con La Procession e Adriana Borriello con La conoscenza della non-conoscenza e le performances hanno occupato sia spazi all’aperto che al chiuso.
Interessante il lavoro di Daniele Ninarello Kudoku con il musicista elettronico Dan Kinzelman, un pezzo dove il corpo s’ispira e si fa guidare dalla musica, all’inizio assordante, che mescola rumori delle macchine, sax, flauti e clarinetti in un crescendo ripetitivo di movimenti fatti di piccoli passi, scatti, pose, movimenti robotizzati che culminano nei giri vorticosi del danzatore, con le braccia aperte, in stile dervisci rotanti.
Una tendenza che sta contagiando molto la danza contemporanea, purtroppo non sempre in modo felice: ne sono un esempio i due pezzi presentati, il 17 giugno, all’Arsenale, alla Tese dei Soppalchi, La Traversée (45’) e Sur le fil (40’) dell’algerina Nacera Belaza (coreografa molto amata in Francia). Una dura prova per il pubblico che ha subìto (senza purtroppo entrare in trance come la tradizione vorrebbe), novanta minuti senza intervallo di giri estenuanti. Purtroppo anche l’atteso debutto di Sunny del coreografo israeliano Emanuel Gat ha deluso per l’assenza totale di messaggi e per l’inconsistenza della coreografia. Peccato perché la compagnia è apparsa in ottima forma, con un inizio che avrebbe potuto decollare: un uomo con una maschera e un vaso di terracotta in testa, piume bianche sui polpacci e sul petto, fa il suo ingresso mentre, sul lato sinistro del palcoscenico, s’esibisce dal vivo, il musicista Awir Leon che, a un certo punto dello spettacolo, intona la famosa canzone Sunny di Bobby Hebb.
Dal fondo escono i dieci ballerini, ragazze in costumi da bagno interi che si atteggiano come se sfilassero e cinque uomini in abiti casual, si alternano in passi a due, soli e corali con un finale all’insegna del kitsch con parruccone, scarpe con zeppe, un guerriero in abito medioevale, una donna completamente coperta da un abito rosso luccicante, tipo burqa.
Un raggio di luce nel week-end inaugurale della Biennale, l’ha regalato la compagnia britannica Shobana Jeyasingh Dance con Outlander, un pezzo eseguito da due danzatrici e un ballerino indiano che percorrono, uno per volta, la lunga pedana nera nello spazio del Cenacolo Palladiano della fondazione Giorgio Cini che ospita sulla parete in fondo, la riproduzione della tela con le Nozze di Cana, di Veronese. I corpi esprimono potenza, seducono con la loro plasticità, di schiena e di fronte, le dita aperte delle mani sembrano gridare i misteri dell’esistenza per poi ricomporsi in pose; una danza di matrice espressionista che unisce i “battiti” della tradizione indiana Bharatanatyam con la drammaticità europea, accompagnata dalle parole di una voce recitante “All my dreams are about tomorrow”. Cinquantacinque minuti, invece, estenuanti con l’assolo Der Bau, ispirato all’omonimo racconto di Kafka, della tedesca Isabelle Schad che, nuda in scena, la testa in giù, muove ogni parte del corpo per circa venti minuti, solleva ripetutamente in aria un telo nero prima di accasciarsi al suolo e (con l'aiuto di due persone) si avvolge in lunghi teli e rotola come una palla. Per fortuna il Leone d’oro alla Carriera che Sieni ha dato subito dopo, nel Teatro Piccolo Arsenale, a una delle più grandi coreografe dei nostri tempi, Maguy Marin, apre qualche speranza al futuro della danza che oggi, più che mai, ha bisogno di messaggi autentici e vitali. Il breve Duo d’Eden della Marin, una danza d’amore tra due corpi diversi e per questo carichi ognuno di una valenza simbolica insopprimibile, ha tenuto alti gli orizzonti sulle possibilità espressive della danza.


Manuela Binaghi